Fino a qualche decennio fa la morte era un evento molto più visibile nelle vite di noi occidentali. Nel tessuto di ogni famiglia ci sono generazioni antiche con il loro vissuto, con le loro ferite, con quei bimbi che non hanno mai raggiunto l’età adulta, di cui si conservano foto in bianco e nero confinate in album polverosi, in ogni famiglia ci sono madri e padri che se ne sono andati prematuramente, bisnonni o trisavoli mai conosciuti di cui ci sono arrivate solo gesta raccontate più o meno verosimilmente.
Si moriva di parto, di peritonite, di tetano, e si…si moriva anche di influenza e delle sue complicanze quando denutrizione e vita dura facevano la loro parte. Quando i farmaci salvavita non erano arrivati a prolungare a dismisura la nostra permanenza nel mondo materiale, si moriva. Si. Si moriva. Da quand’è allora che non si muore più con una certa frequenza nel nostro benestante e grasso mondo occidentale?
Da quando non si arriva più alle trincee e ai fucili per comporre divergenze fra Stati (almeno qua, almeno in casa nostra) e da quando antibiotici e cortisonici hanno riempito le farmacie e le prescrizioni dei medici di famiglia. E la vita nella vecchia Europa si è estesa, ci ha dato quasi l’illusione che dell’altro polo ce ne potessimo dimenticare. Che la morte non esistesse quasi attorno a noi. La morte è un evento che siamo ormai tutti abituati ad ignorare, è l’unico dato certo delle nostre esistenze in questo pianeta scuola a tre dimensioni, è l’unico dato che sicuramente avverrà per ciascuno di noi, eppure siamo riusciti ad ammantarlo della nostra indifferenza più coriacea, che serve ad esorcizzare il terrore che ne abbiamo. Mia nonna, una signorina nata nel 1920, alla soglia degli ottanta aveva accantonato fra i risparmi la cifra per il suo degno funerale, aveva scelto con quale abito dovesse essere sepolta e dato disposizioni sul tipo di bara che voleva e si era preoccupata di ricavarsi uno spazio nella tomba di famiglia. Se ne andò dicendomi che era contenta, perchè aveva lavorato così tanto nella vita che un pò di riposo lo meritava senza dubbio. Come darle torto? Con due conflitti mondiali alle spalle? E quando penso a che tipo di rapporto c’è oggi con la morte nel nostro vivere potrei cercare a lungo e senza risultato un atteggiamento così risolto e sereno nei confronti di un accadimento certo. Di certo la madre di mia madre non aveva mai nemmeno sentito parlare di reincarnazione, di karma, di mondo sottile oltre la materia. Non conosceva sapere esoterico, ne aveva letto Gurdjeff o Alice Bailey. Eppure si comportava come un viaggiatore alla fine del suo soggiorno. Consapevole della sua parabola e del suo dover andare da qualche altra parte.
Come mai questa capacità è perduta? Viviamo al cospetto di un’emergenza che ha fatto balzare alle evidenze delle nostre esistenze passate fra lavoro, tasse, il campionato, Netflix e la prossima vacanza estiva il fatto che esiste anche la morte. Che non si tratta di una remota possibilità riservata ai malati terminali, ben trincerati dagli ospedali ai nostri occhi, che non si tratta solo di una sciagura ineluttabile che per la legge dei grandi numeri può colpire qualcuno mentre è in auto o mentre fa qualcosa di rischioso o sconsiderato. Questo virus ha ridato spessore alla morte. Le ha ridato un corpo che le avevamo negato. E questo accade perchè questo è un mondo di poli opposti, fatto per la crescita della nostra consapevolezza. Jung sostenne che la somma di tutto quello che rifiutiamo va a formare la nostra ombra. Il nostro inconscio. Il grande mondo di quello che sfugge alla luce della nostra consapevolezza. Quel grande mondo che vita dopo vita abbiamo il compito di sondare e vivere per poterci espandere.
Tutto quello che resta rifiutato ci limita. E il nostro compito è quello di tornare interi. Rudiger Dahlke sostiene che ombra e mondo esterno si equivalgano. Nel mondo esterno, in quello che viviamo vive riflesso quello che di noi non conosciamo, perchè rifiutiamo.
Il grande riflesso collettivo di questa fase ci sta portando ad illuminare il grande rifiuto collettivo per la morte che ci accomuna tutti. Ad ogni livello sociale, in ogni fascia d’età, ad ogni latitudine attualmente rifiutiamo a tal punto l’idea di morire al mondo fisico da aver costretto il polo morte a manifestarsi in tutta la sua potenza/violenza. Ed eccola la morte, nera signora che torna a popolare i nostri incubi, ad allacciarci mascherine attorno alla bocca, a desertificare le strade delle nostre città, a riempire le terapie intensive, a rendere precario quello che avevamo fino a ieri. Ci sono voluti Saturno e Plutone congiunti dopo 37 anni e poi ancora la corsa degli altri angeli cosmici tutti a rintanarsi nell’archetipo del Capricorno, l’uno dopo l’altro. Marte, Giove. In questi giorni anche la Luna, che da man forte al Nodo Lunare, anch’esso ancora piantato in Capricorno. Dunque elenchiamoli di nuovo. Saturno, Plutone, Giove, Marte, Nodo Lunare Sud, la Luna adesso. Sono sei presenze. Il Cielo nel suo complesso si è asserragliato nel luogo astrologico della Morte. Perchè se un domicilio concettuale si può trovare alla Nera Signora di certo è il Regno di Saturno, del maestro del Karma, del Guardiano della nostra soglia interiore, che impietosamente ci presenta il conto dei nostri rifiuti perchè sono quelli che ci impediscono di evolvere.
Siamo di fronte ad una lezione sommamente preziosa. La morte tornata di moda nei rotocalchi social e nelle nostre giornate, con i suoi conti di caduti quotidiani negli ospedali ha la facoltà di ridurci a quello che davvero conta nelle nostre vite. Ci rende visibile quello che è essenziale, quello che siamo benedetti ad avere nelle nostre vite e che prima non notavamo nemmeno più.
Adesso notiamo quanto è bello abbracciarci.
Adesso notiamo quanto è bello cantare e ballare. Passeggiare senza preoccuparci che 60 cm ci dividano.
E in tutte le prigionie si nota inevitabilmente quanto il cielo sia meravigliosamente blu.
Il mito quando si occupa della figura di Saturno ci dice che dopo aver rifiutato per anni di dar via il proprio potere e di dividerlo con i figli, dopo aver rifiutato di accettare la trasformazione e il proprio divenire, dovette capitolare sotto le armi di Zeus coadiuvato dai propri fratelli. In alcune versioni del mito venne confinato nella landa desolata del Tartaro, luogo di privazione in cui venivano spediti gli empi e coloro che si erano macchiati di disonore, eppure un’altra frangia del mito ci racconta un passo successivo. Ci narra il cambiamento radicale di Saturno. Nel Tartaro avrebbe avuto modo di riflettere sulla propria condotta e sul disagio provocato ai figli, sul dolore causato, e avrebbe desiderato chiedere il perdono del figlio che l’aveva confinato in quel regno di emarginazione e dolore. E proprio emarginazione e perdita di tutto diventano la fonte del ravvedimento sincero di Saturno. La perdita della sua precedente vita gli ha reso chiaro quello che era davvero essenziale. Non il potere. Non il trono, ma il rispetto e l’amore di quei figli che aveva ferito. Zeus, generoso e sovrano illuminato, così diverso da quello che Saturno è sempre stato, non nega l’abbraccio e il perdono al vecchio padre pentito. E questo consente a Saturno di abbandonare il Tartaro ed entrare di diritto nell’Isola dei Beati. Luogo di amore e pace eterna, riservato solo ai grandi eroi.
Quello che dovremmo attenzionare oggi allora è proprio quello che di essenziale abbiamo scoperto nelle nostre esistenze. Tutto quello che questa forzata riduzione all’essenziale ci sta evidenziando.
Saranno sorrisi e conquiste.
Anche il semplice accorgersi di quanto blu sia il Cielo.
Sempre vostra e sempre a servizio
Francesca Spades
(Opera nell’immagine: The Death Of The Grave Digger by Carlos Schwabe)
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